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venerdì 30 dicembre 2016

Fomän, fomän, gh’è scià ‘l mägnän

Fomän, fomän, gh’è scià ‘l mägnän
Gli antichi mestieri degli ambulanti
“Dòni, dòni, l’è chi ‘l magnano,
che’l gh’ha veuja de lavoràa
E se gh’ij denter cà argòss de fàa giustàa,
tosann l’è scià ‘l magnan che’l gh’ha veuja de lavoràa”
Sono i primi versi di una nota canzoncina popolare, diffusa in tutto il territorio lombardo e piemontese, che abbiamo sentito chissà quante volte, eseguita in mille versioni diverse. Ma soprattutto sono ‘il gancio’, l’appiglio a cui la memoria si aggrappa per raccontare una delle tante, piccole storie che da tempo frullano nel cervello.
Sono nato e cresciuto a Montebuglio – l’antica Buglio, comune autonomo fino alla metà del XIX secolo, ora frazione di Casale Corte Cerro – e questi ricordi risalgono ai primi anni ’60, in un paesino di circa trecento anime, con le strade completamente acciottolate e lo ‘stradone’ carrozzabile, verso il capoluogo e il limitrofo territorio omegnese, pavimentato a ghiaia.
Non era raro, in quei tempi, sentir risuonare tra i vicoli i richiami di strani personaggi che arrivavano da lontano a offrire i loro servigi e le loro merci, a movimentare la vita sonnacchiosa del borgo risvegliando la curiosità delle comari e lo stupore di noi bambini, che accorrevamo sulla piazzetta a rimirare l’insolito spettacolo.
Ed eccolo lì, lo strano personaggio. Una volta al mese era il lusciàt, l’ombrellaio proveniente da Sovazza, che installato sugli scalini esterni della bottega di alimentari e generi vari estraeva dalla barsèla, la cassetta a spallacci tipica del suo lavoro, gli attrezzi del mestiere – pinze, cacciaviti, ago e filo – e metteva mano ai parapioggia raccolti durante il primo giro, al grido di “Ombrellaio, l’è scià l’ombrélé. Dòni, gh’è ‘l lusciàt!”, sostituendo le stecche rotte e ricucendo i teli. Altre volte era invece il molitä – l’arrotino – a piazzare la sua macchina a pedali sotto il portico della chiesa per estrarre una pioggia di scintille luminose da ogni lama che passava e ripassava sulla pietra rotante.
Il materassaio invece veniva direttamente in casa, su richiesta. Montava il suo curioso macchinario nei cortili, scuciva e sventrava i materassi imbottiti di lana facendo passare quest’ultima tra le ganasce dentate in modo da cardarla e renderla nuovamente soffice e vaporosa. Poi la reinfilava nei sacchi di tela marroncina, a righe bianche, e collocatili su due cavalletti li ricuciva con mosse rapide e precise, utilizzando lo spago di canapa e una serie di aghi di dimensioni mostruose. Strumenti di tortura, nella mia immaginazione, dal momento in cui mia nonna, per tenermi buono, mi disse: “Se non fai il bravo me ne faccio dare uno e lo uso per punzecchiarti il…” Ci siamo capiti, no?
Ma il più misterioso e terrificante era lui, ël mägnän, il calderaio. Facemmo la sua conoscenza una mattina d’autunno quando, usciti per recarci a scuola, trovammo la piazza della chiesa quasi completamente occupata da una specie di tepee indiano, una di quelle tende che avevamo cominciato a conoscere dai filmetti western trasmessi dall’unico apparecchio televisivo presente in paese, al circolo operaio, dove ogni pomeriggio, alle 17 e trenta ci veniva concesso di vedere la ‘Tivù dei ragazzi’. Sotto quei teli si scorgeva il bagliore del fuoco e, sbirciando dall’apertura d’ingresso, vedemmo un omone accovacciato che rigirava sulle fiamme una pentola da cui saliva un fumo verdastro e dall’odore pungente. Sentendosi osservato sollevò il capo e ci fissò con due occhi che a noi ragazzini parvero tizzoni ardenti, poi esplose in un “Buh!” talmente sonoro che fuggimmo a gambe levate, inseguiti dallo scroscio della sua risata divertita. Nel pomeriggio tornammo cautamente a spiarlo; lui sorrise, ci chiamò vicini e si mise a raccontarci del suo lavoro, dei suoi viaggi e delle tante cose curiose che girando il mondo aveva imparato, rivelandosi una delle persone più piacevoli e divertenti che avessimo mai conosciuto. A dispetto di madri e nonne che ci raccomandavano di starne lontani, perché “Dë col lì gh’è miä dä fidàas!
Tra i commercianti la figura più singolare era quella della Lindä däl fägòt, un donnone – ai miei occhi molto anziana – che viaggiava a piedi portandosi a tracolla un involto colmo di capi di biancheria che andava offendo di porta in porta, sempre ben accolta dalle massaie che la aspettavano con impazienza, segno sicuro dell’ottima qualità della sua merce, robä bonä ch’lä costä pòch. Suo diretto concorrente era l’Omin däl martis, tipo molto più al passo con i tempi, visto che arrivava alla guida di un vecchio e scassato furgoncino 850 Fiat dal quale estraeva telerie, biancheria e capi d’abbigliamento vari con i quali imbandiva un vero e proprio banchetto sugli scalini esterni del circolo. E qui prendeva immediatamente corpo il proverbio secondo cui ‘Tri fomän e on cò d’aj e ‘l mërcà l’è bèli fàai’…
Un’altra donna arrivava da Sovazza a vendere miele e burro, portandosi quest’ultimo dentro un secchio colmo d’acqua per mantenerlo al fresco.
E ancora i fruttivendoli, ij vërduré, che parcheggiavano i loro furgoni e poi giravano per i ripidi vicoli suonando una caratteristica trombetta per segnalare il loro arrivo. Era festa quando, ogni tanto, decidevano di passar quel compito a noi monelli, ricompensandoci poi con un’arancia – on portigàl – e una manciata di spägnolët.
Da ultimo, come scordare il mitico Tognìn dij gelati, con il suo Ape Car attrezzato a frigorifero in cui trovavano posto i contenitori con la magica mäntècä nei quattro gusti base: crema, cioccolata, fragola e limone; trenta lire il cono con una pallina, cinquanta per due. E una omaggio per chi si aggiudicava il campanellino con cui dare l’avviso del suo arrivo. Una pacchia…
Chiudiamo in gloria: quando alzavo troppo la voce per farmi dare retta dagli adulti, la solita nonna mi redarguiva: “Quä ti vosät? Ti mä smëiät on cätälän” senza mai spiegare chi fosse la persona nominata. Crescendo con i romanzi di Salgari ero arrivato alla convinzione che si trattasse di un abitante della Catalogna, uno di quei personaggi finiti chissà come nel mar dei Caraibi a fare il filibustiere. La leggenda dello spagnolo urlante… Sino a che, anni dopo, non mi tornò alla memoria il richiamo del Pèp dij Strèsc:Strascée! Fomän, gh’è ‘l cätä län” Lo straccivendolo, accidenti!
Massimo M. Bonini – barbä Bonìn

Nota linguistica.
I testi dialettali sono trascritti secondo le regole fonetiche stabilite dalla Consulta Regionale per la Lingua Piemontese, adattate alle varianti del Verbano Cusio Ossola e Alto Novarese dall’associazione Compagnia dij Pastor di Omegna. Per maggiori informazioni in merito a questi aspetti è possibile consultare il sito internet compagniadijpastor.blogspot.it

Novembre 2016

per Alpe Nostra, notiziario del C.A.I. sezione di Omegna

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